Il blog di Rosanna Spinazzola

domenica 12 maggio 2013

Borges e Musil, tra La battaglia di Maldon e L'uomo senza qualità


 [Suggerimento musicale per la lettura: Mozart_Requiem]


L’animo sia tanto più fermo, / il cuore più audace,
il coraggio tanto maggiore, / quanto più diminuiscono le nostre forze.” 
La battaglia di Maldon, versi 312-316.


A Rue des Rois 10, a Ginevra, si trova il cimitero di Plainpalais.

cimitero di Plainpalais

Un largo tappeto verde sotto cui riposano uomini e donne lì sepolti grazie a qualcosa per cui si sono distinti.
I nomi illustri sono parecchi; tra gli altri: Denis de Rougemont, Piaget, Calvino, la figlia di Dostoevskij e Griselidis Real la cui tomba vince il mio premio personale di "miglior epitaffio di sempre":
"Scrittrice, pittrice, prostituta".

Amen, sorella.








Ci sarebbe molto da scrivere su ognuno di questi signori,  purtuttavia solo su due io voglio soffermarmi.

Il primo è Borges.

Alla tomba numero 735 riposa il grandissimo maestro, che visse a Ginevra quattro anni tra il 1914 e il 1918 durante la sua adolescenza e che ivi tornò in tarda età per curare alcuni problemi di salute.
Sulla pietra tombale era stato deposto appena qualche giorno prima un mazzo di fiori, accompagnato da un biglietto con su scritto da mano anonima la parola “Maestro” sotto la data.

Tomba di Borges

Sulla lapide, in alto, l’incisione con il nome: Jorge Luis Borges.
Più in basso la frase in antico inglese: “And ne forhtedon na” (Giammai con timore), estratta dal poema epico del X secolo (circa) “La battaglia di Maldon.”
Più sotto ancora un bassorilievo con sette guerrieri, spade sguainate, in procinto di buttarsi in combattimento.
Sotto di essi, vicino alla data di nascita e di morte 1899/1986, una piccola croce del Galles.

Nella parte posteriore sono riportati due versi della Saga di Völsunga, XIII secolo: “Hann tekr sverthit Gram okk legger i methal theira bert” (Egli prese la sua spada, Gram, e pose il nudo metallo tra i due).
Sotto di essi, come noterete dalla foto, una incisione di un drakkar vichingo.
Sotto il drakkar, la scritta: “De Ulrica a Javier Otalora“, due personaggi dei racconti borgesiani. Un saluto privato, a quanto pare, di Marìa Kodama, sua ex-alunna che divenne sua segretaria e, a poche settimane dalla morte, sua seconda moglie.


Lapide di Borges, parte posteriore

La battaglia di Maldon è un poema breve in cui si descrive la sconfitta del conte Byrhtnoth (Beorhtnoth secondo Tolkien), capo di un manipolo di guerrieri inglesi uccisi nel 991 a Maldon, appunto, durante la difesa della piccola cittadina nella contea dell’Essex da una aggressione scandinava guidata da Olaf Tryggvason, bisnipote di quell’ Harald Bellachioma che fu primo re di Norvegia.

Non si conosce il nome dell’autore né il periodo esatto di creazione (probabilmente intorno all’anno mille) e soprattutto non si conosce l’inizio né la fine del componimento poetico perché il foglio esterno che lo racchiudeva è andato perduto. Il testo è stato a lungo studiato sia da Borges che da Tolkien, che ne riscrivono, in modi assai divergenti, un epilogo.

Lo scritto originale ci dice che Byrhtnoth concesse (Dio solo sa perché) ai nemici di guadare il fiume accordando loro il vantaggio strategico  di una battaglia in campo aperto. Il poema dice anche che lo fece perché i nemici, questa orda di selvaggi e terribili vichinghi, gli chiesero di comportarsi in modo “cavalleresco” e rinunciare al suo vantaggio in favore di una battaglia alla pari.
Ovviamente vinsero i norvegesi.
Il conte morì in battaglia e questo causò la fuga di una parte dell’esercito inglese mentre l’altra metà rimase a farsi uccidere restando a protezione del corpo del cadavere del loro signore, poiché l’ideale guerriero germanico imponeva che nessun valoroso poteva sopravvivere alla morte del proprio comandante.

La poesia/racconto breve di Borges, che si trova nella raccolta “La moneta di ferro”, ci mostra un “esercito” inglese composto da contadini e marinai poco avvezzi all’uso della spada che resistono con le unghie e con i denti ai terribili (e imbattibili) vichinghi.

Italo Calvino e Jorge Luis Borges
Nell’interpretazione di Borges, i guerrieri inglesi affrontano il nemico consapevoli della propria sconfitta e il narratore della storia, il vecchio Aidan, raccomanda ai superstiti radunatisi ai margini di una fitta boscaglia (quella metà non fuggita via a gambe levate), di continuare a combattere nonostante tutto, proprio perché nessuno di loro può sopravvivere alla morte del proprio signore, in accordo all’ideale eroico germanico.
Come ci si aspetta da ogni eroe degno di questo nome, insomma: mai indietreggiare nemmeno davanti alla morte.

Da opposto versante parte l’interpretazione di Tolkien, che potrei definire speculare. Il professore inglese ne fa una questione di traduzione errata di un termine, esattamente dei versi 89-90:

“Allora il Conte,
mosso dall’orgoglio,
concesse fin troppo terreno
a quel popolo odioso”.

Il termine “orgoglio” nell’originale antico anglosassone è ofermod, e venne tradotto con il moderno overboldness, ovvero “audacia” o “spavalderia”: due termini che in italiano hanno accezioni decisamente differenti del medesimo concetto.

J.R.R. Tolkien

Su questa ambiguità si scagliò Tolkien, ritraducendo ofermod con overmastering pride, ovvero “smisurato orgoglio”, scegliendo in modo definitivo l’accezione meno eroica delle due.
In breve: secondo il professore l’errore fu del conte che, tutto preso da se stesso, non considerò con sufficiente cognizione la difficile situazione militare, condannando dunque a morte certa i suoi uomini.

Nello stesso saggio edito da Bompiani e curato da Wu Ming 4 “Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm” figura un articolo monografico di Tom Shippey, il più grande studioso ed esperto di Tolkien, che rifiuta in modo categorico l’interpretazione filologica tolkieniana.


(A chi nutra interesse per le opere di Tolkien, segnalo l'ottimo sito della ArsT: Associazione romana studi Tolkieniani)

Come sia andata davvero, lo sanno solamente coloro che più non possono svelarcelo, ma anche per questo poema vale la regola che accompagna ogni testo letterario: esso è ciò che noi crediamo che esso sia.

Per Borges, che riposa sul quel prato curato e silenzioso, è l’emblema di coloro che restarono fedeli ai propri ideali nonostante l’amaro prezzo da pagare; esattamente come lui, al quale venne negato il premio Nobel per la fedeltà alle proprie idee conservatrici, tradizionali e filo-occidentali.
Pare che quando gli venne confidato che il premio era già nella sua tasca se solo avesse rinunciato a un viaggio in Cile (per conferenze e per ritirare una delle 23 lauree honoris causa assegnategli durante tutto l’arco della sua vita), rispose che allora partire sarebbe stata un’ottima idea.

Questo dimostra una volta di più che l’ambìto premio viene assegnato per motivi politici e (quasi) mai per esclusivo merito.
Per me, per quanto io possa valere, egli è stato uno dei più grandi scrittori del XX secolo, con o senza premio Nobel.
Riposa in pace, maestro.

Il secondo è Musil.
Tomba di Musil

La sua pietra tombale è composta da due parallelepipedi affiancati. Sul più alto il suo volto scolpito ad opera di Bernard Bavaud,  sul più basso una targa:

“Ingegnere, scrittore, saggista e drammaturgo austriaco, vissuto a Ginevra da luglio 1939 ad aprile 1942”.
Più in basso una citazione da L’uomo senza qualità:
“se esiste un senso della realtà, allora ci dev’essere anche il senso della possibilità.”

Ammetto di non essere riuscita a digerire quello che è stato considerato il suo capolavoro (incompiuto), e di averlo abbandonato al primo volume. Il romanzo “L’uomo senza qualità”, interrotto al cap. 38 della terza parte, vuole essere (tra le altre cose) la sua personale critica alla società moderna.
Iniziato negli anni venti, ci lavorò fino alla fine dei suoi giorni non riuscendo a portarlo tuttavia a termine. Il primo volume ebbe un successo enorme. L’ultima parte fu pubblicata dalla sua vedova a proprie spese: quattordici capitoli (forse) conclusi e altre informazioni in forme di bozze.

Il romanzo è un labirinto, un viaggio nella sua mente di cui sfugge la trama e il senso ultimo, resi ancor più inafferrabili dalla sua tecnica espressiva.
Quest’opera paragonabile all’Ulisse di Joyce e Alla ricerca del tempo perduto di Proust, purtuttavia se ne discosta per via della fredda e distaccata analisi.

Lapide di Musil
Sarà che non leggo mai i libri di Joyce dopo aver pranzato (il flusso di coscienza mi rimane un po’ indigesto) né quelli di Proust in primavera (il suo stile mi fa aumentare l’orticaria allergica), Musil non mi ha mai trasmesso qualcosa su cui poter tornare successivamente con il pensiero.

Nemmeno lavando i piatti o spazzando il pavimento, ovvero quando lo stato di concentrazione è massimo.



Unica eccezione “I turbamenti del giovane Törless”, romanzo di formazione non convenzionale, in cui il protagonista, il giovane cadetto omonimo, vive una tensione tutta interiore tesa al raggiungimento di equilibrio psicologico attraversato da dubbi sulla sessualità (avrà anche lui un rapporto omosessuale con un compagno di classe costretto da un ricatto ad opera di altri due compagni) e sulla morale come concetto che permea l’individuo nella società.
Un romanzo che mi piacque abbastanza, senza diventare per me pietra miliare: forse perché letto ormai in età adulta. 
Robert Musil

O forse per un eccessivo svilimento della vittima che, con ogni probabilità, non vessata a sufficienza, lo scrittore vuole anche compiacente e masochista.

Musil, a quanto è riportato nel diario, risultava antipatico e scontroso (nonché fortemente disadattato), ma questo poco ha a che fare con il suo lavoro.
Forse.
O forse no.
Ciò che rimane con certezza è il suo grande contributo alla letteratura mondiale e, benché personalmente non lo apprezzi, non posso negarne la grandezza e non sorridere, rispondendo a me stessa con le sue parole incredibilmente evocative: “Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente che gli stipiti sono duri.”.







domenica 5 maggio 2013

Ginevra e il lago degli artisti


 [Suggerimento musicale per la lettura: Swan lake_Tchaikovsky ]


“L'uomo è nato libero, ma ovunque è in catene"_ Jean Jacques Rousseau_

Ginevra giace sul lato sud-ovest del lago Lemano, abbandonata ai sogni delle dolci correnti e vegliata dal solido Monte Bianco che, amorevole, la protegge.

Cinque mesi, cinque: questo il tempo che trascorrerò insieme a lei, cercando di carpirne le visioni. Nel frattempo, l’obiettivo è chiudere la prima stesura del mio romanzo ed editarlo fino a quando non sarà diventato scorrevole. Ovvero ad libitum.

Non mi soffermerò sulle duecento organizzazioni internazionali che hanno sede qui, né all’incredibile miscuglio di lingue e razze che convivono in questa piccola città.
Non mi pronuncerò sulla sua storia, sul suo ruolo nell’Europa, né farò digressioni sulla sua cucina o sulla famigerata fondue. Poco lontano, ad ovest, c’è il CERN al quale si potrebbe riservare una trattazione a parte.
Non ne scriverò perché non sono queste le cose che hanno catturate per prime la mia attenzione.
C’è qualcosa, qui, che non riesco ad afferrare ma che mi affascina e mi commuove oltre ogni limite.

Mi riferisco al lago. 

È lui il vero cuore di questo pezzo di mondo. Un gioiello d’acqua pulitissima incastonato a 370 e passa metri di altitudine tra le Alpi e il Giura, e bucato dal Rodano e dall’Arve, i suoi due principali corsi d'acqua.
Quando si cerca “Ginevra” sul web si trovano informazioni contrastanti: è bellissima ma noiosa, è viva ma fredda, è cosmopolita ma diffidente.
Io non so come sia questa città: ci sono arrivata tre settimane fa ma ancora mi sfugge la sua natura.

Di certo qui manca la colorata confusione di Roma, sostituita da una efficienza proverbiale. Insomma: a Ginevra ti suonano col clacson solo se fai un’infrazione e non per farti sbrigare se scatta il semaforo verde.

La temperatura è un’altalena. 

Quando esce il sole fa un caldo terribile, stemperato da un vento freddo e umido che arriva direttamente dalle Alpi innevate, visibili da praticamente ovunque. 

Quando il sole è coperto da fitti nuvoloni grigi il freddo entra nelle ossa e non si toglie più. Non resta altro da fare che entrare in una caféterie a bere quello che, per noi italiani, è un surrogato annacquato di caffè bollente. Alla modica cifra di 8 franchi svizzeri, ovvero 6 e passa euro.

Dimenticavo di scrivere che è la città più cara d’Europa.

La gente in compenso è cordiale, poliglotta e “moderna”. Un po’ troppo alla moda per i miei gusti ma i locali radical chic non mancano e sono frequentati da gente all’apparenza anticonvenzionale. Salvo poi rientrare in un sottoinsieme che ha delle proprie convenzioni, ma lasciamo perdere.

Io oggi voglio parlare del lago. È lui il vero protagonista, insieme a una natura ubertosa. I paesaggi sono magnifici e tolgono il fiato. Proprio ora mentre scrivo due nibbi svolazzano sul palazzo di fronte. Due nibbi. Due aquile. Come a Ferrandina, solo che laggiù abito quasi in campagna e in un territorio selvaggio e antico. Qui abito nel centro della città, nel cuore del mondo.
Quando esco e vado in un parco a raccogliere le idee che proprio non vogliono stare dove dovrebbero, ovvero nella mia testa, mi viene incontro un pavone che fa la ruota o un daino che cerca cibo. Corvi ovunque: messaggeri di Odino. Giardini che sono un’esplosione di colori e di forme. E in fondo a tutto questo, a sorreggerlo e incorniciarlo lui: il lago più grande d’Europa.
Se esco, è lì che vado.
Sì, un giro nella città vecchia e nella cattedrale dove ha predicato Calvino lo faccio, di tanto in tanto. Qualche locale dove fanno la birra buona. Ma il lago, signori miei, il lago…

È pura poesia.

Neppure il luccichio di banche, gioiellerie e orologerie può nulla contro gli sfavillanti riflessi del sole sulle increspature dell’acqua. Chiunque abbia un cuore sensibile percepirà l’ispirazione salire dall’acqua e insinuarsi dolcemente nelle arterie, fin su alla radice dei capelli. Una natura così volubile che ti illude di essere ovunque pur rimanendo immobile.



Non credo di riuscire a tenere il conto di tutti gli artisti che hanno vissuto o hanno abitato per brevi periodi in questi luoghi, attratti da queste acque come api da una tinozza di miele.

Rousseau e Voltaire, i filosofi del secolo dell'Illuminismo, vissero a Ginevra. Il pensiero del primo ispirò la Rivoluzione francese.
Il compositore russo Igor Stravinsky e la sua famiglia si stabilirono a Montreux nel 1910 e poi a Clarens e Morges. Guardando il lago scrisse Le Sacre du Printemps, e fu durante le sue passeggiate lungo il Lago di Ginevra che fu ispirato nella composizione di Petrouchka.

Tchaikovsky, la cui tomba ho visitato a San Pietroburgo (ne parlo in questo articolo), compose a Clarens, qui sul lago di Ginevra, il meraviglioso Concerto per violino e orchestra op 35 in soli 25 giorni. Quello trascorso su questo lago fu per lui un periodo terribile: si era infatti appena sposato, frustrando la propria omosessualità. Quell’opera ne è viva testimonianza.

Byron visse a Ginevra e proprio qui, a due passi da dove vivo io, scrisse Il Prigioniero di Chillon, due atti di Manfredi e il terzo canto di Childe Harold.
Nell’estate del 1816, Shelley andò in Svizzera per incontrare Lord Byron. Divennero amici, tanto da prendere casa vicino, sulle rive del Lago di Ginevra. Shelley scrisse che la vicinanza di Byron lo portò a raggiungere una propria espressione poetica e che, un giro in barca fatto insieme su questo incredibile lago, lo ispirò a scrivere l’Inno alla Bellezza Intellettuale.
In una sera di pioggia, mentre i due amici, Mary Wollestonecraft Godwin, moglie di Shelley, e John Polidori erano riuniti intorno a un caminetto, Byron lanciò la sfida che ognuno scrivesse il proprio racconto di fantasmi. Poco dopo, in un sogno ad occhi aperti, Mary concepì l’idea di Frankenstein. Lo terminò che non aveva ancora 19 anni sempre qui, nei pressi di queste acque chiare.

Mentre passeggio sul Pont du Mont Blanc, davanti al Jet d’Eau, scopro che sono nello stesso molo in cui, nel 1898, Elisabetta di Baviera la principessa Sissi venne colpita a morte dall'anarchico Luigi Lucheni.

Qui visse e morì (e pretese di essere seppellito) Jorge Luis Borges. Credo che il suo spirito si aggiri ancora da queste parti e sussurri"sono cieco e ignorante, ma intuisco che sono molte le strade". lo so, lo sento, perché mi viene in mente questa frase ogni volta che guardo il lago.

Sempre a Ginevra Fëdor Dostoevskij scrisse L’idiota, e mi fa un certo effetto pensare che la mia strada si incrocia di nuovo con la sua (qui l’articolo).

Non lontano dal centro della città Germaine de Staël, meglio nota come Madame de Staël, diede vita ad uno dei circoli culturali più illustri d'Europa. Da queste rive si oppose al regime napoleonico e influenzò Alessandro Manzoni.

Qui vissero per lunghi periodi Strauss e Goethe e proprio colui che ispirò in me il desiderio di scrivere, Charles Dickens fu guardando questo lago che scrisse il mio amatissimo Dombey e figlio, nel 1846.

Tutti, tutti loro facevano lunghe passeggiate solitarie intorno a questo lago. 
Compreso Victor Hugo, che si recò spesso a Montreux per trarre ispirazione. Nella stessa città Lev Tolstoj, nel 1857, scrisse I mendicanti.
Un secolo dopo fu il turno di Simenon: a lui il dolce mormorio delle acque suggerì di creare il commissario Maigret.

Il 15 aprile 1942, a Ginevra, moriva Musil e qui fu sepolto. Nello stesso cimitero dove si trovano Piaget, Borges e Denis de Rougemont. Fu quest'ultimo che con L’amore e l’occidente cambiò il mio modo di intendere le relazioni amorose.

Queste stesse rive conobbero i tormenti di Joseph Conrad e di Hugo Pratt con Corto Maltese , e fu in una libreria di Ginevra che Céline abbordò Elizabeth Craig, la donna a cui dedicò Voyage

Henry James fu letteralmente rapito da questa città, come racconta nel suo Viaggio in Svizzera, così come lo scrittore Julio Cortázar che scrisse Rayuela, Il gioco del mondo, definito l’antiromanzo.


Negli anni novanta Krzysztof Kieślowski girò a Ginevra Film Rosso, mentre anche David Bowie e Phil Collins eleggevano questo lago a loro tempio d’ispirazione.  


Tutti questi artisti, e molti altri, furono sensibili a questi luoghi, al loro commovente lirismo.

Intorno al bordo del lago si inanellano come perline su di un filo testimonianze del passaggio di scrittori, musicisti, poeti, pittori, creativi d’ogni risma.


Cinque mesi, cinque.
Non ho intenzione di perdermene nemmeno una, a cominciare da Montreux, paesino medievale particolarmente fecondo di ispirazione. 
Sarà la mia prossima tappa.

Ci sono molte cose inspiegabili, qui, ma una è certa: questo lago ha un incanto che accompagna i sognatori, da sempre. 
È stato così per tutti questi grandi del passato.
E se è stato così per loro…